Questo è uno di quei classici post che non è interessante leggere, ma è importante scrivere
Quando inizia a progettare avevo pochi anni.
Come tutti i bambini usavo le costruzioni, il meccano, e altri giochi del genere. Mia madre mi diceva sempre che facevo veramente delle cose assurde con le costruzioni e che se provava a darmi Ciocciobello mi rigiravo come un’indemoniata (confesso che a me Ciocciobello ha sempre messo paura!)
Attratta più dai giochi maschili mi intrippavo spesso con le forme più assurde che riuscivo a dare a quelle cose squadrate.
Quando dovetti scegliere l’università, piena di speranze mi iscrissi alla Facoltà di Ingegneria, in realtà sarei dovuta andare in Achitettura, ma questa è un’altra storia.
Insomma comincia a frequentare l’Università ed i colleghi universitari.
Tutti arsi del fuoco della passione, seguivamo le lezioni di analisi in un ex cinema parrocchiale .
Dopo poco più che arsi eravamo solo stufi, Mi ricordo agguerrite partite di bigliardino al vecchio bar del Cagliari a Marina, jesù come ci sentivamo snob e cool!
Passai i primi anni a macinare esami su esami, frequentavo il laboratorio di falegnameria della facoltà dove componevo i plastici dei progetti, che portavo agli esami. Adoravo quelle ore che passavano così, immersa in balsa e vinavil, a limare e smussare, colorare e tagliare.
Naturalmente quegli anni non li passai tutti in falegnameria, anche se mi pare di ricordare che anche lì ci si divertisse!
Per motivi che non starò a raccontare una mattina mi svegliai e diedi ai miei genitori la notizia del mio imminente abbandono del tetto coniugale. Per me lieta per loro meno.
La prima volta che entrai all’università di Bologna fermai un tipo per chiedergli che cosa voleva dire 2.8. Lui mi guardo con un vago senso di compassione,(per me era ciellino) e mi spiegò come leggere l’orario delle lezioni e le aule. Imparai subito che la 2.8 era un’aula al secondo piano e per il resto bastava leggere.
Da lì mi successero un sacco di cose.
Tipo finii così per caso a partecipare ad un master universitario con studenti francesi e spagnoli dove parlavo di architettura in tre lingue di cui due non le conoscevo ma di una approfondii la conoscenza, bevevo litri di birra stando attenta a non toccare la carta lucida ed i fogli, ballavo song 2 e facevamo un sacco di foto ma non avevamo la digitale. A volte, lavoravamo anche fino alle 4, per finire le tavole. E la mattina dopo non vedevo l’ora di ricominciare.
Feci altri viaggi ed altre esperienze di città, luoghi, architetture, paesaggi, giardini, mi divertivo un sacco insomma.
Andavo alla Biennale (una volta dormii su un ponte perché io ed E dovevamo provare a noi stessi che potevamo vivere senza usare la carta di credito, i contanti o similari, “come in guerra!”mi continuava a dire per farmi capire. Discorsi assurdi di due ragazzini stupidi e viziati seduti su un ponte e cominciò anche a nevicare, era San Valentino)
Davo anche un discreto numero di esami.
Poi incontrai il mio mentore.
Con lui parlavamo ore intere sostanzialmente di un muro in mezzo all’acqua, (certo è riduttivo ma non posso dire di più).
Ore e ore a soppesare, ricercare, chiedere agli abitanti del luogo vecchie dicerie e cartoline storiche.
In piena estate io e le 4 pazze con cui feci tutta l’università(finchè loro si laurearono) rilevavamo il suddetto. Ci fu un giorno che colte da imminente insolazione ci levammo la maglietta e ce le mettemmo in testa. Di fronte passava un gruppo di bambini scout (io ho sempre odiato gli scout, gli brucerei quelle braghette corte che c’ hanno! ) e ci tirarono le pietrine!!! Tenuto conto che la più scarsa aveva la terza, gli scout rimarranno sempre, per me, degli idioti!
Quando finimmo il progetto ebbi la brillante idea di farmi lusingare da progetti strampalati e privi di logica quali concorsi di idee e concorsi di progettazione (per carità ci partecipavano anche Gregotti e Natalini, ma loro erano già laureati!)
Cominciai a lavorare.
Cominciai anche ad abbandonare il mondo universitario.
Finchè lavoravo con il mentore all’interno delle mura universitarie feci quello che mi piaceva. Progettavo, discutevo, mi confrontavo, imparavo.
Poi andai a fare un po’ di esperienza in uno studio.
Fu la morte ed il crollo di tutte le mie illusioni.
Altro che confronto.
C’era praticamente solo lo scontro.
Odiavo alzarmi la mattina per andare in quel posto.
Durai un anno netto.
Poi dopo aver rinunciato senza la minima coscienza e forse determinazione ad entrare nello staff di Libeschind, tornai sotto le ali protettive del prof.
Ho fatto delle cose stupende con lui.
Lavoravo anche 24 ore senza dormire, i periodi di consegna. Il mio collega era fantastico. Ed ancora quasi ogni giorno ci sentiamo.
Ma non era più come prima.
Dovevamo procacciarci il cibo, come dicevamo ridendo con D., e allora il confronto erano public relation, le cene sui fogli erano ore a picì e stampante per rattoppare qua e là disegni senza particolare pregio, e la progettazione fumo sugli occhi. Che alcune cose contano di più del progetto stesso.
Alla fine di quel anno per lo stress avevo avuto la serie più assurda dei malanni.
Decisi che mi dovevo laureare, per avere prospettive diverse.
Ma non riuscivo più ad andare all’università.
Proprio ad entrarci.
Mi venivano gli attacchi di panico, come quando ero adolescente.
E l’ansia mi faceva solo scappare!
Ma non riuscivo a capire il perché.
Poi ci fu Milano
E adesso sono qua.
Stamattina ci sono passata davanti.
Ho rallentato e poi sono ripartita.
Ma ho capito.
Sono tutti quei ragazzi, che parlano di formule matematiche, di fisica, di progetti e di vinavil, che adesso mi spaventano, perchè io riesco solo a pensare che sto perdendo del tempo ad andare lì.
O che ho solo sprecato un sacco di tempo a non andarci.
E’ per questo che non riesco a finire l’università.
Mi fa paura dover essere giudicata, magari da persone con cui ho rapporti di amicizia o di lavoro.
Ho paura di non essere più o di non essere mai stata in grado di superare tutti gli esami, e di non essere una di loro.
Non accetto il fatto che rimando sempre quello che non mi riesce subito e che mi provoca difficoltà.
Un giorno riuscirò a chiedere scusa ai miei genitori, che ci tengono più di me.
Un giorno riuscirò ad accettare le critiche anche da altre persone, non solo da me.
Un giorno riuscirò anche a parlare dell’università con altre persone, senza sentirmi commiserata e giudicata.
Un giorno riuscirò ad ammettere che finire quella dannata università sarà mettere un punto a tante cose.
Ma non oggi.
Oggi lo ammetto solo con me stessa, e con te che per anni hai cercato di perforare questa barriera tra noi due.
Non sarebbe cambiato niente, ma è il mio modo di ringraziarti, per questo.
Guardo in faccia le mie paure.
Ancora non riesco a guardarle dritte negli occhi.
Ancora non so come, ma un giorno ci andrò anche a bere un caffè.
Come tutti i bambini usavo le costruzioni, il meccano, e altri giochi del genere. Mia madre mi diceva sempre che facevo veramente delle cose assurde con le costruzioni e che se provava a darmi Ciocciobello mi rigiravo come un’indemoniata (confesso che a me Ciocciobello ha sempre messo paura!)
Attratta più dai giochi maschili mi intrippavo spesso con le forme più assurde che riuscivo a dare a quelle cose squadrate.
Quando dovetti scegliere l’università, piena di speranze mi iscrissi alla Facoltà di Ingegneria, in realtà sarei dovuta andare in Achitettura, ma questa è un’altra storia.
Insomma comincia a frequentare l’Università ed i colleghi universitari.
Tutti arsi del fuoco della passione, seguivamo le lezioni di analisi in un ex cinema parrocchiale .
Dopo poco più che arsi eravamo solo stufi, Mi ricordo agguerrite partite di bigliardino al vecchio bar del Cagliari a Marina, jesù come ci sentivamo snob e cool!
Passai i primi anni a macinare esami su esami, frequentavo il laboratorio di falegnameria della facoltà dove componevo i plastici dei progetti, che portavo agli esami. Adoravo quelle ore che passavano così, immersa in balsa e vinavil, a limare e smussare, colorare e tagliare.
Naturalmente quegli anni non li passai tutti in falegnameria, anche se mi pare di ricordare che anche lì ci si divertisse!
Per motivi che non starò a raccontare una mattina mi svegliai e diedi ai miei genitori la notizia del mio imminente abbandono del tetto coniugale. Per me lieta per loro meno.
La prima volta che entrai all’università di Bologna fermai un tipo per chiedergli che cosa voleva dire 2.8. Lui mi guardo con un vago senso di compassione,(per me era ciellino) e mi spiegò come leggere l’orario delle lezioni e le aule. Imparai subito che la 2.8 era un’aula al secondo piano e per il resto bastava leggere.
Da lì mi successero un sacco di cose.
Tipo finii così per caso a partecipare ad un master universitario con studenti francesi e spagnoli dove parlavo di architettura in tre lingue di cui due non le conoscevo ma di una approfondii la conoscenza, bevevo litri di birra stando attenta a non toccare la carta lucida ed i fogli, ballavo song 2 e facevamo un sacco di foto ma non avevamo la digitale. A volte, lavoravamo anche fino alle 4, per finire le tavole. E la mattina dopo non vedevo l’ora di ricominciare.
Feci altri viaggi ed altre esperienze di città, luoghi, architetture, paesaggi, giardini, mi divertivo un sacco insomma.
Andavo alla Biennale (una volta dormii su un ponte perché io ed E dovevamo provare a noi stessi che potevamo vivere senza usare la carta di credito, i contanti o similari, “come in guerra!”mi continuava a dire per farmi capire. Discorsi assurdi di due ragazzini stupidi e viziati seduti su un ponte e cominciò anche a nevicare, era San Valentino)
Davo anche un discreto numero di esami.
Poi incontrai il mio mentore.
Con lui parlavamo ore intere sostanzialmente di un muro in mezzo all’acqua, (certo è riduttivo ma non posso dire di più).
Ore e ore a soppesare, ricercare, chiedere agli abitanti del luogo vecchie dicerie e cartoline storiche.
In piena estate io e le 4 pazze con cui feci tutta l’università(finchè loro si laurearono) rilevavamo il suddetto. Ci fu un giorno che colte da imminente insolazione ci levammo la maglietta e ce le mettemmo in testa. Di fronte passava un gruppo di bambini scout (io ho sempre odiato gli scout, gli brucerei quelle braghette corte che c’ hanno! ) e ci tirarono le pietrine!!! Tenuto conto che la più scarsa aveva la terza, gli scout rimarranno sempre, per me, degli idioti!
Quando finimmo il progetto ebbi la brillante idea di farmi lusingare da progetti strampalati e privi di logica quali concorsi di idee e concorsi di progettazione (per carità ci partecipavano anche Gregotti e Natalini, ma loro erano già laureati!)
Cominciai a lavorare.
Cominciai anche ad abbandonare il mondo universitario.
Finchè lavoravo con il mentore all’interno delle mura universitarie feci quello che mi piaceva. Progettavo, discutevo, mi confrontavo, imparavo.
Poi andai a fare un po’ di esperienza in uno studio.
Fu la morte ed il crollo di tutte le mie illusioni.
Altro che confronto.
C’era praticamente solo lo scontro.
Odiavo alzarmi la mattina per andare in quel posto.
Durai un anno netto.
Poi dopo aver rinunciato senza la minima coscienza e forse determinazione ad entrare nello staff di Libeschind, tornai sotto le ali protettive del prof.
Ho fatto delle cose stupende con lui.
Lavoravo anche 24 ore senza dormire, i periodi di consegna. Il mio collega era fantastico. Ed ancora quasi ogni giorno ci sentiamo.
Ma non era più come prima.
Dovevamo procacciarci il cibo, come dicevamo ridendo con D., e allora il confronto erano public relation, le cene sui fogli erano ore a picì e stampante per rattoppare qua e là disegni senza particolare pregio, e la progettazione fumo sugli occhi. Che alcune cose contano di più del progetto stesso.
Alla fine di quel anno per lo stress avevo avuto la serie più assurda dei malanni.
Decisi che mi dovevo laureare, per avere prospettive diverse.
Ma non riuscivo più ad andare all’università.
Proprio ad entrarci.
Mi venivano gli attacchi di panico, come quando ero adolescente.
E l’ansia mi faceva solo scappare!
Ma non riuscivo a capire il perché.
Poi ci fu Milano
E adesso sono qua.
Stamattina ci sono passata davanti.
Ho rallentato e poi sono ripartita.
Ma ho capito.
Sono tutti quei ragazzi, che parlano di formule matematiche, di fisica, di progetti e di vinavil, che adesso mi spaventano, perchè io riesco solo a pensare che sto perdendo del tempo ad andare lì.
O che ho solo sprecato un sacco di tempo a non andarci.
E’ per questo che non riesco a finire l’università.
Mi fa paura dover essere giudicata, magari da persone con cui ho rapporti di amicizia o di lavoro.
Ho paura di non essere più o di non essere mai stata in grado di superare tutti gli esami, e di non essere una di loro.
Non accetto il fatto che rimando sempre quello che non mi riesce subito e che mi provoca difficoltà.
Un giorno riuscirò a chiedere scusa ai miei genitori, che ci tengono più di me.
Un giorno riuscirò ad accettare le critiche anche da altre persone, non solo da me.
Un giorno riuscirò anche a parlare dell’università con altre persone, senza sentirmi commiserata e giudicata.
Un giorno riuscirò ad ammettere che finire quella dannata università sarà mettere un punto a tante cose.
Ma non oggi.
Oggi lo ammetto solo con me stessa, e con te che per anni hai cercato di perforare questa barriera tra noi due.
Non sarebbe cambiato niente, ma è il mio modo di ringraziarti, per questo.
Guardo in faccia le mie paure.
Ancora non riesco a guardarle dritte negli occhi.
Ancora non so come, ma un giorno ci andrò anche a bere un caffè.
3 Comments:
In fondo è anche importante leggerlo un post come questo qui. Anche per chi queste paure non ce l'ha.
Felice di sapere che non hai certe ridicole paure!:-)
Cazzo ci fai qui??? Vai a studiare! Muoviti.
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